Marea

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Questo testo concorre al concorso Shottini, organizzato dal Penelope Story Lab.
#shottini #concorsoshottini #shottinomarea #penelopestorylab Penelope Story Lab
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Chi arrivava per primo sceglieva lo scoglio da cui ci saremmo tuffati, funzionava così tra noi.
Il mattino presto, dopo le barche dei pescatori, la bassa marea, l’acqua pulita.
L’estate era questa cosa qui.
Nei giorni in cui faceva brutto tempo, con una felpa e il cappuccio, guardavamo la tempesta, il caffè in mano mentre tu mi dicevi Me ne devo andare.
Non sono mai stata brava con le parole io, ho sempre pensato che nessuno se ne va davvero da un posto quando ha qualcosa a cui tiene.
Chissà quanto urla una coscienza, mi chiedo. Forse non basta il silenzio dell’acqua, non basta girare la vela.
Continuo a venire qui ogni sabato mattina, non mi tuffo più. Ho sempre pensato che avrei potuto dirti qualcosa quel giorno, ho sempre pensato che non sarebbe cambiato niente. Hanno aggiunto troppi massi qui, adesso, l’acqua è lontana e tu laggiù in fondo.

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Foto: Michele Mobili artist photography

Autogrill (150 parole)

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Rifaccio questa maledetta strada, ne conosco perfino le buche, le piazzole abbandonate ai lati del garderail, i cambi di colore delle stagioni.
Chissà dove stai adesso mi chiedo. Ho una birra in mano e conto da quanto non vivo più con te.
Il Cischi diceva di avere la migliore, quella tagliata bene, la tenevi per dopo cena, ai giardini, poi al secondo autogrill, l’ultima prima di entrare al Pineta, perché dentro ai bagni non c’era posto.
Di tutte le volte mi mancano i ritorni, quando ci addormentavamo in macchina esausti, nudi, senza ore che stringevano il collo.
Lì, al lago delle grazie, adesso hanno chiuso l’ingresso, nessuno può entrare, vorrei che togliessero l’acqua, vorrei vedere se dentro ci sono tutte le cose che mi dicevi. Non me lo hai detto dove stava il dolore.
Sto qui adesso, aspetto che tu torni, ridendo, dicendomi Ci sei cascata Mimì, vieni qui dai.
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(Ph. @kulturtava on twitter)

Diario [#concorsoshottini #penelopestorylab ]

[Racconti brevi]

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150 parole.
#diario
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Senza righe, soltanto novantacinque stupide pagine vuote su cui vomitare parole.
Un diario ogni anno, fin quando ho capito lo sbaglio. Li ho bruciati tutti adesso, diciassette scatole nere piene di cose accadute, strappate, confessate, mentre li guardavo ardere tra le fiamme blu. Era necessario, non lo possono sapere loro quanto importante fosse questa ossessione di essere amata, non lo capirebbero. Parlerebbero di tradimento, di esclusività, ma cosa ne sanno, nessuno lo sa che da quando te ne sei andato sono rimasta un pezzo rotto, come una casa senza finestre, bucata e strapazzata dalle correnti.
Saresti dovuto rimanere con me quel giorno, avevo io le sigarette, tu il CD dei Police. Saremmo venuti qui, dove la spiaggia di sera diventa rossa. Non mi hai mentito, non mi hai detto niente, l’ho capito da sola quel silenzio. Mi resta questa M, questa lettera tatuata che è andata bene per ogni nome.
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Lei

 

Nevica.
Guarda fuori dalla finestra della cucina, quel bianco sembra sincero, eppure.
Lo sa, è tutto un cercare il volto giusto pensa. In questi anni in cui non riesce a trovare posti, perché non esce, ha smesso di esistere. Sta scomparendo. E non è rimasto neanche un pezzo della forma che era.
Ci sono giorni in cui tutto il peso del cielo la travolge, senza riuscire a vedere il mare poi. Con quella montagna lì davanti che per tutto il tempo la guarda e la giudica e sembra dirglielo anche lei che non è, che non esiste per questo posto qui.
Ma.
Nel frattempo ha ripreso le letture vecchie, tutte quelle pagine riposte nelle memoria giovane e chissà dove finite poi, riapre pure i versi, tutti gli spazi vuoti riempiti dalle risposte a matita, quella conoscenza dell’immobilità diventata peso e non risorsa.
Continua a fare eco il suo nome fuori da queste mura, sbatte la voce contro la terra alta, contro la montagna bianca adesso, questo grigio spesso come lana acrilica pesa sulla pelle chiara, compromessa, straziata. Lascia ogni volto sprofondare in qualche passo vecchio che non le appartiene più. Non si chiama allora, la voce che le ritorna addosso è una frusta, ha smesso di gridare, si tiene tutto lì dentro, guarda solo un po’ più in là a denti stretti, con i pugni chiusi meditando la sua vendetta.
Adesso è tutto immobile lì fuori, vede la sua protesta sotto la neve che scurisce nella sera, che non supera la trincea, il suo riflesso assottigliato sul vetro chiuso non dice niente, è un sabotaggio continuo.
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[Paragrafi]

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Le mani

L’altro giorno pensavo Ma guarda quanto sono diventate brutte le mie mani, non sono più quelle di una volta con lo smalto rosso e le unghie lunghe insomma, sembra che faccia un lavoro duro, di quelli che ti consumano le dita. Invece.
Invece lavo (tanto) stiro (poco) cucino (più di tutto) metto in ordine cose per non inciampare e cerco di stare zitta. Eh ma sai tutti questi figli, no, in realtà quello che più di tutto rovina le mie mani è lo stare zitta. Questo trattenere le parole masticandole tra i fiotti della stanchezza intervallati dalle ore. Mi mordo le dita fino a far uscire il sangue, ed è difficile fermarlo poi, i cerotti si staccano e sotto l’acqua le ferite non si rimarginano mai.
Ci sono dei periodi migliori in cui non mi faccio poi così male, magari le butto dentro un foglio bianco le parole, così le mani soffrono di meno. Altri peggiori in cui il dolore inizia dalle mani e finisce nello stomaco, dove si appallottola tutto quanto.
Tampono con degli adesivi tipo nastro isolante, in modo che la mia bocca si isoli dal contatto con le mani, le cose le ricordo dal tatto e dagli odori, quindi è un allontanarsi, restare in quel vuoto momentaneo, un apparente distacco tra ciò che penso e quello che vorrei dire. Me lo tengo per me. Me lo tengo per me perché le parole hanno un peso, e questo peso quando è fatto di somme è una ferita, due ferite, tanti piccoli tagli fuori e dentro, alcuni si vedono altri no.
Cerco di nasconderle, le mani, quando esco, faccio gesti veloci oppure le tengo chiuse, in tasca, e lo vedo se me le guardano, quando lo fanno sposto l’attenzione.
Forse è un disagio stupido ma, dai, siamo onesti, è la prima cosa che si guarda in una persona. Come fate a dire gli occhi? È un luogo comune che non regge più. Le mani gli guardate ad un uomo, ammettetelo. Perché è con quelle mani che vi toccherebbe e mentre parla o parliamo noi le guardate e ve lo immaginate. Se sono orrende è inutile, quel poveretto non avrà nessuna speranza.
Le mani rappresentano non solo il contatto, le mani ti strappano di dosso il cuore, i brividi buoni e anche quelli cattivi. Ti irrigidiscono ti tormentano ti scaldano ti aiutano o ti distruggono. Sono la parte di noi che più ci rappresenta io penso. Anche nella gestualità si vede la persona che sei, da come le muovi, da come le tieni. E da troppo tempo io le nascondo, le tengo chiuse, le tengo piene, occupate. Le tengo tra la farina e gli impasti, tra le penne e la carta, sui tasti bianchi dove scorrono via insieme, per fortuna l’insegnamento della dattilografia che non esiste più.
Mi guardo le pieghe ora, gli anni si contano anche qui, tra le vene più scure e più sporgenti, gli anelli sbiaditi e le cicatrici vecchie. Non le so creare le cose, non so disegnare, non so cucire, queste mie mani guariranno dalle ferite forse, si vedranno piccoli solchi scuri, oppure strisce chiare per le scottature del forno, ma non sanno creare nulla. Anche questo è un pezzo mancante, un difetto di fabbrica io credo, e allora cerco di imparare, un aereo di carta, un bottone di traverso, un ordine preciso in fila per colore ma non ci riesco. Il mio è un piccolo caos in ordine di tempo, è sempre un l’ho messo qui da qualche parte dove almeno lo ricordo eppure quasi mai lo trovo. Il mio è un andare avanti con la mente perché ad arrampicarmi, le mie mani ferite, non ce la farebbero proprio.

[Paragrafi]

[Appunti del non viaggio]