Riflessioni

[i contenitori che avevo sono rimasti pieni di niente, cianfrusaglie impolverate dagli anni nelle fessure scurite.
C’era una magia lì fuori invece, o sembrava ci fosse mentre caricavo borse sul passeggino e camminavo a piedi e mi sorprendevo di quell’albero lì ma guarda le prime viole, i fiori, la montagna rigata dall’ultima neve. I muri, i ciottoli, gli odori dei vicoli, del forno, della strada, delle auto, di tutto un tempo sospeso sembrato di qualcun altro.
Oggi piove e sono due secoli. Il passeggino è in soffitta nello scatolone e per uscire prendo un’altra strada. Non è più lo stesso luogo, non sono più quella che credeva all’errore. C’è una sospensione di maldicenza, un’indifferenza stratificata che mi ha insegnato come chiudere la porta e la bocca.
Guardo spesso dalla parte opposta adesso, il ciliegio nudo ancora, senza l’innesto buono è lì anche lui in bilico sul ciglio della terra piena di sassi, devo imparare la direzione giusta, la luce vera. Mi dico comincia a respirare e smetti di contare.]
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Grazie a Sergio Daniele Donati che con le sue riflessioni ha ispirato le mie.

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Dalet

 

Imparo lo spazio bianco adesso, il silenzio
rispettoso verso il non detto, dicono.
Questa porta sempre aperta ha l’interno cavo
un passato remoto scritto male
il passo zoppo inciampato sulla vita.
Porto ancora addosso tutta la curvatura delle vertebre –
il mio bacino dall’asse sbieco, non tiene l’equilibrio –
imparo il silenzio adesso, questo niente
creduto peso, il carico enorme sulla schiena compromessa – eppure –
insegnarsi a camminare, diventare strada unica
la via folle rincorsa davvero, l’unica verità su cui credere alla luce.

Il falco

 

Uno spazio dimenticato questo, adesso, mentre si richiude nel cerchio della notte, nella stessa incisione da anni.
Un falco vola ogni giorno qui intorno, quasi in basso, tra il noce e le due querce sopra il fosso, mi percorre lo spazio abbandonato, incolto e mi dico guarda, questa bellezza inattuata è possibile forse, basta non continuare a chiudere gli occhi, ché a forza di chiuderli si diventa ciechi, dicono.
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#frammenti

Ghimel [o Gīmêl]

A volte mi chiedo se merito questa sacralità questa osservazione

sulla direzione giusta di un cammino vergine.

La desinenza è fatta di fatica, sono austerità illogica e pentita io,

non basta più il dare in un posto che mi toglie.

La mia restituzione potrà essere poca cosa, qui era casa d’altri,

io non avevo e forse non avrei dovuto, se avessi saputo

quanto grande avrebbe potuto essere lo strappo.

Eppure, in questa sintesi perfetta sono sempre io lo sbaglio

l’effetto interdetto di una ragione abortita, la consegna ingenua

la parola muta. Allora l’altro è più di uno

sono loro, è lei che non se ne andrà mai, è il segno nero

sul fronte della porta, la sbavatura che ha macchiato il vestito bianco.

Ma ogni notte lavo via un pezzo, ripulisco la memoria

imparo a respirare e nello scritto lascio tutto il peso

che ha sempre avuto la strozzatura di queste mie parole
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[sul peccato originale – lettere]
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#alfabetoebraico

Bet

Non c’è ritorno per me, guarda

come curva il corsivo e va via.

[Deve andare via]

Eppure, casa spazio pancia

non è stato solo il punto.

Se il centro cambia l’essenza, allora

io divento conca

[la crinatura sul vetro pulito]

Si può essere mai pronti a ricevere?

Questa è terra fatta di roccia

piante selvatiche che poggiano sbieche  –

l’orizzontalità non c’è qui –

devi adattarti alla curvatura

con o senza benedizione.

Contengo altro io, spesso, cose perdute.
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#alfabetoebraico  la BET