Zayin (settima lettera)

Zayin
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La differenza per sottrazione –
un tempo tagliato prima
dell’ago che ricuce.

Tutti i tagli in fila sette volte ripetuti nella memoria forata al centro.
Sono stata fenditura e pugnale, guerra giusta nello sbaglio delle cose –
– guarda come sfinisce questo calco adesso la lama – un’incisione che sanguina, la mia, un grido ripetente ormai.
Lo spazio stretto non fa da sponda, le discese bugiarde sono risalite scure,
mi riconsegnano all’adattamento, alla sottrazione, alla differenza.
Questo tempo tagliato prima
i punti scuciti
gli aghi spuntati in verticale.
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#alfabetoebraico

Vav o Waw (sesta lettera)

È lì
nel centro
tutto ciò che ti salva.
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È tutto qui nella pancia, l’inizio.
Guarda, la congiunzione storta
ha dilatato i sostantivi, eppure
in questa verticalità forzata dev’esserci
una redenzione, mi dico. L’automatismo
sbagliato ha rotto il limite, la conta dei sassi,
lo spacco della terra. Adesso
si può ricominciare penso, adesso
conosco il nome di ogni taglio
il richiamo del silenzio a dirotto
lo sguardo dalla parte giusta.
Mi fermo ancora ogni cinque passi
il sesto sarà sempre nodo, l’inciampo
il segno incompleto alla caviglia –
quell’inchiostro sbiadito sulla pelle – ma
credo nella finitura della linea, tra
i frantumi di passi, l’ascolto che precipita
quest’anima di carta, la pelle sovraesposta.
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#alfabetoebraico

He

Uscire dalla pronuncia sottile
e capirne il ritorno.
La verità del tuo nome.
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He
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ancora silenzio
non esce dalla bocca chiusa il suono della rinascita
ancora silenzio.
Come coesiste un dio della guerra in un bosco incantato?
ancora silenzio.
I fantasmi, le ossa rotte, alberi nuovi e rocce cadute
strappano, gli urli dei lupi abbandonati nella selva adesso,
un luogo fermo senza strade, uno spazio chiuso dentro il suo rifiuto.
Soffia solo il vento su questi fiori tesi dal gelo che persiste
guardo ancora verso est perché marzo non perdona più
ciò che hai creduto numero perfetto ma non sapevi –
non siamo cinque con uno in più ma un due con lo scarto di quattro –
che non riesce a tornare intero, neppure dopo la fioritura.
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#lettereebraiche

Dalet

 

Imparo lo spazio bianco adesso, il silenzio
rispettoso verso il non detto, dicono.
Questa porta sempre aperta ha l’interno cavo
un passato remoto scritto male
il passo zoppo inciampato sulla vita.
Porto ancora addosso tutta la curvatura delle vertebre –
il mio bacino dall’asse sbieco, non tiene l’equilibrio –
imparo il silenzio adesso, questo niente
creduto peso, il carico enorme sulla schiena compromessa – eppure –
insegnarsi a camminare, diventare strada unica
la via folle rincorsa davvero, l’unica verità su cui credere alla luce.

Ghimel [o Gīmêl]

A volte mi chiedo se merito questa sacralità questa osservazione

sulla direzione giusta di un cammino vergine.

La desinenza è fatta di fatica, sono austerità illogica e pentita io,

non basta più il dare in un posto che mi toglie.

La mia restituzione potrà essere poca cosa, qui era casa d’altri,

io non avevo e forse non avrei dovuto, se avessi saputo

quanto grande avrebbe potuto essere lo strappo.

Eppure, in questa sintesi perfetta sono sempre io lo sbaglio

l’effetto interdetto di una ragione abortita, la consegna ingenua

la parola muta. Allora l’altro è più di uno

sono loro, è lei che non se ne andrà mai, è il segno nero

sul fronte della porta, la sbavatura che ha macchiato il vestito bianco.

Ma ogni notte lavo via un pezzo, ripulisco la memoria

imparo a respirare e nello scritto lascio tutto il peso

che ha sempre avuto la strozzatura di queste mie parole
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[sul peccato originale – lettere]
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#alfabetoebraico