Era il dodici luglio

Ogni tanto torno qui, c’è una panchina davanti all’ingresso del cimitero, mi sono seduta adesso, non ho un orologio quindi potrebbe essere passato un minuto, un’ora o due non so dirlo. Tutto si è ingrandito, in trent’anni è raddoppiato. Entrare significherebbe fare lo stesso identico percorso di sempre. Lo stesso scricchiolio, gli stessi sassolini e lo stesso rumore sotto la suola delle scarpe dal fondo di gomma, gli stessi fiori, soltanto i flaconi vuoti hanno cambiato forma, quelli per riempire i vasi, l’ammorbidente e il detersivo hanno aggiornato i formati e devono averlo deciso anche per i colori.
Le impalcature attirano l’attenzione adesso, il silenzio è sempre cantato dalle cicale lì intorno. C’è questa strada che finisce, finiva proprio qui, ora soltanto qualche centinaio di metri più giù ma il senso è lo stesso, qui finiscono le strade, finisce il tempo avuto a disposizione.
Da piccola venivo con mio nonno, con la sua vespa bianca dal parabrezza alto, era un bianco quasi grigio, il parabrezza grigio sul serio, di quelli anni settanta che lasciano il buco per la luce e il telo che copre in caso di pioggia. Ero piccola, stavo sempre sul davanti, in piedi, dietro mi avrebbe persa. Facevamo lo stesso giro, ogni volta. Mi ricordo le fotografie, tutte quelle delle lapidi vicine, vecchissime già allora, in bianco e nero fuori fuoco, immaginavo le loro vite in silenzio.
Mi sono allontanata per parecchi anni. Negli ultimi sono ritornata sempre con il passeggino, probabilmente per avere un peso conosciuto sulle mani da portare. Non ho più fatto lo stesso giro, ci sono parecchie scale, le ruote dei passeggini fanno un altro rumore e affondano, non puoi mantenerti dritto, come i carrelli del supermercato quando hanno una ruota rovinata e non decidi mai tu la traiettoria che prenderà.
Passo fuori, nel secondo ingresso che è lì da vent’anni. I viottoli sono di cemento e i passaggi lisci, senza barriere architettoniche.
Anche lui è qui adesso. Oggi sono ventuno anni. Oggi è il giorno dopo quello in cui.
Guardo le loro due facce sorridenti, anche mia nonna è qui ormai, li hanno messi lontani ma si saranno riuniti, non avrebbero sopportato ancora una distanza. Dico Ciao e me ne vado via veloce, questo posto mi piega il ricordo degli anni, lo spacco di due vite divise ogni volta con lo strappo.
Mi rimetto a camminare verso casa, quella che era mia. Mi affaccio dalla vecchia finestra sul retro, faccio la mia solita foto, torno alle macchinine, i telecomandi e i sassi presi sulla riva. Li divido tutti, i neri dai chiari, li metto nei barattoli di vetro quei pezzi di roccia sgretolata, ché un po’ è il mio mare frastornato, una certezza che conservo in fila in un ripiano nella stanza sotto la montagna; un po’ sono io, in tutti quei tagli, mille forme per adattarsi alla trasparenza, finire scheggiata dalla rottura e mai, mai più tornata intera.
Per un attimo ecco la sera di tutti gli anni prima, sono di nuovo piccola tra quelle lenzuola stirate, mi rimetto sulle cose, sulle mani lasciate aperte e chissà se è stata davvero la tua voce o me la sono soltanto immaginata.
Lo troverai un modo hai detto, lo troverai.
Ma tu continui ad andare via all’improvviso ed io a tenere questa corda tesa piena di nodi. Tutto è fuori posto nella credenza ora, il tuo bicchiere a forma di stivale pieno di gettoni non c’è più.
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