Resh (ventesima lettera)

 

Resh (ventesima lettera)
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È il male insoffribile che incalza
La curvatura sbagliata del disconoscimento,
Una negazione pesante quasi quanto l’annullamento.
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Dove sono finite le mie maschere, mi domandi.
Vuoto
Sono senza direzioni, strade tagliate e muri
sgretolati, ho un corpo che resiste ma non rientra, una curvatura
dannata e sottomessa in cui non c’è preghiera. Parlo
un linguaggio sconosciuto. Ascolto l’indifferenza e l’assenza
mentre penso a vuoto. Non c’è ritorno, non può esserci
salvezza per qualcosa senza inizio. Lo strascico di sangue
s’innalza tra di noi, macchia ogni parola e allora
mentre il chiacchiericcio di notte mi batte sulla fronte, cerco
un silenzio disperato, insperato quasi, che mi accolga.
Sono sulla soglia troppo bassa, un invisibile contrattempo ti dico
che ha arginato il fiume. Mi aggrappo ogni volta
in ciò che trovo ma non regge. Scivolo.Provo a risalire
contro la corrente, in certi giorni.
M’impiglio.
Ricado.
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#alfabetoebraico
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Qof (Diciannovesima lettera)

 

Qof
Diciannovesima lettera
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Cerco lucidità oltre la dissociazione
La memoria vecchia non ancora digerita
Vacillo e poi, persisto.
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Guardami
sono come la terra, rattristata e sfinita
la saggezza calpestata, la foglia schiacciata,
la pioggia non le ha negato il pretesto, stanotte.
Mi cerco lucida tra la follia scura, il buio a volte cancella
il paradosso di questo stare. Continuo a dissociare
lo spirito dalla materia e non c’è diporto nell’imitazione.
Le cose uguali i gesti ripetuti come la memoria che torna
vecchia, non digerita, non assimilata. Non mi discute
l’opinione rozza, nessuno sa, nessuno può capire.
Che restino loro, santi, senza preghiera alcuna
sono stanca ma lo tengo stretto questo male.
Vacillo e poi
Persisto.
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#alfabetoebraico

Febbraio 2022

 

Si sta consumando in fretta questo tempo
il ciliegio cresce e si alza, riempie il suo spazio
di campo di terra, e intorno dondolano i rami
delle querce antiche, stormi di poiane
che non infondono coraggio invece, le serpi stanno
dentro ai buchi della terra adesso, il terreno è secco
le righe storte del confine curvano il flusso della pioggia
una rete che non chiude, la pendenza verso il fiume.
E allora, come spesso dico, conto le sfumature
tra ruggini e schiarite raccolgo quarti di cielo dalle pozze
– cerchi d’acqua – lasciate piene al mattino presto
m’incammino sulla stessa strada, quattro passi svelti
due torri, la chiesa, la gru che rimette in piedi la casa rotta,
dieci volte lo stesso giro nel tempo buono.
Lo sguardo sfinito per cercare il nuovo –
scaglie impercettibili – sullo spazio identico
da troppi anni. Soltanto i suoni a volte cambiano
tendi l’orecchio allenato al silenzio
Adesso c’è neve.
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[Febbraio 2022]
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[Foto del Maestro Michele Mobili che ringrazio, sempre.]

testo edito nella raccolta del concorso “L’arte in Versi”

Mattine d’inverno

Il ciliegio
[sull’alba]
(e sta così, nudo, senza poter scegliere lo spazio giusto, soltanto a riempirsi di luce, a volte, come adesso, come solo quando cade un ricordo e s’intreccia tra i rami).
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#frammenti

Luoghi. E poi.

 

A volte mi fermo davanti allo specchio, guardo dentro gli occhi scavati per vedere se la riconosco un po’ quella cosa lì, quella luce che ha resistito a così tante cose e giorni e luoghi, il vetro mi restituisce solo gli ultimi anni stanchi, cerchiati dal sonno, dalle delusioni che stanno macerando sul fondo del lavandino. Evaporeranno forse con l’acqua bollente in un momento buono, magari quello giusto.
Ogni giorno cerco quel movimento che fa la luce oltre il ciliegio selvatico, oggi la nebbia copre la metà di sopra ed il cielo è un blocco di cemento.
Chiudo l’ultima persiana, il buio è fitto e senza luci, c’è ancora nebbia. Guardo la stanza, l’asimmetria data dalla mia parte colma di libri, guardo gli altri libri appoggiati a terra, dovrei farmi fare una libreria, penso, c’è un vecchio cofanetto, un residuo dei traslochi, una metà della vita che sembra di qualcun altro.
Dovrei buttarle le cose vecchie mi dico, invece conservo tutto, perfino le mollettine luccicose a forma di farfalla di quando avevo i capelli lunghi. Ci sono le spille che mettevo sulla divisa da barman, un braccialetto rotto, due croci d’argento, un lapislazzuli, un  gettone. Mi ricorda le telefonate nelle cabine chiuse, i rumori lontani del bar, di quelli che giocavano a carte la domenica pomeriggio. L’odore della plastica, di aria rimasta chiusa, di chi c’era stato prima, un profumo che si incastrava nelle fessure e nel naso.
C’era, in quel gesto, nel gesto di andare per telefonare, un’ansia dell’attesa, la paura di una risposta mancata, la bellezza della voce.
Richiudo la scatola, rimetto l’ippopotamo morbido e grigio sopra a fare la guardia, scendo di sotto per accendermi una sigaretta.
Guardo la fiamma del camino, come fosse la pausa di una fine giornata, di una fine e basta magari, una contemplazione giornaliera di qualche pezzo, come ad esempio quel passato remoto in cui si faceva il giro delle mura d’inverno sui motorini, in due senza casco, con l’aria che tagliava la mezza faccia scoperta, il naso gelato dal freddo e quella stupida convinzione di far durare un per sempre.
Ho ritrovato soltanto un andarsene invece, la sfacciata verità del tempo quando ti cambia anno per anno anche la voce, la misura delle ore, dell’aria, questo rumore dei motorini quando se ne andavano via e tutto il resto con loro, insieme al chiasso che hanno sempre fatto le marmitte della Giannelli.
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Racconti brevi
#400parole

Foto del Maestro Michele Mobili