Samekh (quindicesima lettera)

 

La colla la maniglia –
l’appiglio – la risposta
quando sta nel cerchio.
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Ho imparato il giro, i millimetri sono spazio stretto
il collante non può reggere tutto il peso e allora
mi faccio silenzio, non so se riesco ad essere maniglia.
La risposta nel cerchio è tempo interrotto, strappato
dal muro, pareti intere d’indifferenza da trapassare
intanto che mi bussa il mondo, combatto
battaglie
cieche e sulla soglia non mi sporgo, aspetto, ripeto.
Rimango aggrappata alla notte, spesso, la mano stretta
a pugno, solo una feritoia consentita per la luce
il sogno rimasto addossato alla fatica, ancora,
senza direzione senza cucitura, i pezzi mancanti
da ristabilire. Mi tengo scritta per non cedere eppure.
Ogni giorno
Mi rialzo.
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#alfabetoebraico

Nun (Quattordicesima lettera)

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Nun
(Quattordicesima lettera)
#alfabetoebraico
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Guardami, sono io l’inciampo, la caduta
un pesce rimasto senz’acqua, senza luogo
senza più nulla di ciò che gli era appartenuto.
Mi dici impara, da questo peso deformante
mi dici torna, alla consapevolezza del bene
ma lo spazio tra le lettere è muto, non attende.
Mi dice la distanza, la piega del collo invece,
il passo indietro per sottrazione, la cura
è un vaso rotto, senza sutura ogni taglio.
Risalgo, rallento, da troppo tempo ferma
e disattenta, fino alla prossima buca
guardo dove metto i piedi, le mani, le parole.
Riprovo.
Ricomincio.
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#alfabetoebraico

Mem – tredicesima lettera

Mem – (tredicesima lettera)
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Trentotto, il numero da moltiplicare per quaranta –
l’aderenza del veleno alle spaccature – per l’esondazione senza distillazione.
L’armistizio, prima dell’indulto.

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Ho guardato per anni l’esondazione, l’avvelenamento,
la contaminazione delle cose che credevo di proteggere.
Quaranta settimane per sentire un suono sordo che non so
se può chiamarmi per davvero, le quaranta moltiplicazioni ripetute
senza il giudizio della purificazione, soltanto per ripetere l’errore.
E non ho imparato neanche la distillazione, sono io la causa
del veleno, senza antidoto ho fatto piovere non pensando allo straripamento
al riassorbimento di tutti i tempi stuprati, ho chiuso l’uscita, perché
quel veleno non entrasse ancora; aderisce alle pareti, fa spessore, ora.
Qui dentro sono tutta a pezzi, la spaccatura ha rotto gli argini e guarda
tutti i miei peccati adesso, questo poter credere di creare, invece
di trasformare ciò che non si plasma, le braccia stanche, la fatica
di stare sempre in una eterna notte, la paura del buio quando
sta cambiando anche me, lo vedi? Adesso sto crollando piano
nel silenzio dei giorni, sotto strati grezzi che sto mettendo in riga,
pagina dopo pagina, lettera dopo lettera per arrivare a comprendere
il significato vero, il posto giusto che mi faccia restare.
Mi accordo.
Mi fermo.
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#alfabetoebraico
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Le sere di maggio

Ma guarda come diventano le sere di maggio quando la luce rivuole il suo spazio. Lo infilza tra una pioggia e l’altra mentre si apre la spaccatura che lo inghiotte.

Marea

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Questo testo concorre al concorso Shottini, organizzato dal Penelope Story Lab.
#shottini #concorsoshottini #shottinomarea #penelopestorylab Penelope Story Lab
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Chi arrivava per primo sceglieva lo scoglio da cui ci saremmo tuffati, funzionava così tra noi.
Il mattino presto, dopo le barche dei pescatori, la bassa marea, l’acqua pulita.
L’estate era questa cosa qui.
Nei giorni in cui faceva brutto tempo, con una felpa e il cappuccio, guardavamo la tempesta, il caffè in mano mentre tu mi dicevi Me ne devo andare.
Non sono mai stata brava con le parole io, ho sempre pensato che nessuno se ne va davvero da un posto quando ha qualcosa a cui tiene.
Chissà quanto urla una coscienza, mi chiedo. Forse non basta il silenzio dell’acqua, non basta girare la vela.
Continuo a venire qui ogni sabato mattina, non mi tuffo più. Ho sempre pensato che avrei potuto dirti qualcosa quel giorno, ho sempre pensato che non sarebbe cambiato niente. Hanno aggiunto troppi massi qui, adesso, l’acqua è lontana e tu laggiù in fondo.

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Foto: Michele Mobili artist photography