Quella metà della vita

[…]
“Sì che ci credevi. Ci credevi come quando hai quattro anni e tuo papà ti dice che sei un campione, o come quando tua madre ti dice che ti vuole bene.
Ci credevi alle cose, alle persone, a quello che accadeva. Agli uomini credevi, a quelli vestiti bene, perché con la cravatta tutto era più composto, anche l’assurdità di certe affermazioni.
Pensavi che dietro un bel vestito ci potesse essere una maturità priva di bugie, una consapevolezza buona a costruire, un futuro, un pezzo di vita insieme, magari chiamata pure famiglia chissà. Ci avevi creduto, e sorridevi. Sorridevi alla vita meravigliosa, alle cose belle, al sole che filtrava dalle fessure delle serrande nuove, dell’appartamento nuovo, arredato con mobili nuovi, le tende nuove, ogni dettaglio scrupolosamente studiato per essere perfetto. Perché era come nelle favole, la casa delle bambole, quasi tua la casa e bambola tu, quella bella, quella con i capelli lunghi, con i capelli biondi.
Non ti ricordi di preciso quando è stato il momento in cui qualcosa è caduto, senza rompersi subito certo, ma si è andato sgretolando pian piano. Ogni giorno lentamente perdeva qualcosa, anche il silenzio della casa nuova che era bello, perché pieno, perché nuovo, perché ti aveva reso grande ormai, abitando con tuo marito, un marito che non c’era più come prima o forse c’era come prima ma sembrava non ci fosse affatto.
Allora hai cominciato a tenere la radio accesa, notte e giorno, così che il silenzio s’arrotondasse un po’.
Con la musica però la mente girava più veloce, le immagini correvano dietro alle canzoni, traccia dopo traccia, giorno dopo giorno, fin quando hai deciso di smettere, di vivere i tuoi vent’anni, di lasciare le domande nel lavandino e uscire per capire quella parte del mondo rimasta a metà.
Te lo dicevano che non sarebbe stato facile ma tu non davi ascolto mai a nessuno che non fosse la tua stupida testa.
Sei andata fuori, fuori città, fuori di testa, fuori luogo, fuori dagli schemi che tutti abbiamo, intanto che le stagioni passavano, le cose restavano imballate negli scatoloni, la vita diventava liquida, gioco, notte, fumo, spazi immensi in alto sopra le rocce ferme.
Hai gridato, forte, hai imparato a respirare, piangere meno, correre più veloce, ridere sul serio, ascoltare le voci, le confidenze, il vento che girava intorno la casa, un’altra in affitto poi, sulla cima, tra gli alberi e gli scoiattoli che la mattina traversavano la stradina dall’asfalto rovinato, pieno di buche, l’odore di un tempo quasi immobile, quasi sospeso, senza un confine da guardare dalle finestre troppo piccole, gli scuri troppo scuri e le stanze troppo brevi.
Hai ricominciato, dopo il cavalcavia, dopo un giro di primavere, dopo il freddo che fa la neve in un posto tanto alto, hai saltato i dispiaceri, azzerando ogni distanza con il mare, gli scatoloni sempre appresso, ogni pezzo avvolto nella carta di giornale, le notizie vecchie nei bicchieri nuovi, e sei tornata a cercare niente, un’altra casa bianca, un altro posto solo, un altro tempo che potesse riavvolgere tutto il nastro lacerato, il recupero degli anni passati a domandarsi con la testa dritta di fronte ai vetri chiusi, invece no. Non hai recuperato niente perché le cose vanno, accadono, si ricostruiscono, si sbagliano, svaniscono, ti cadono addosso e in tutto questo non puoi fare altro che riconoscerti, senza mai perderti attorno lo sbaglio più grande.
Perché non è la verità ad essere sbagliata, hai sbagliato tu a prenderne una che non somigliava affatto al tuo modo di amare la vita.
[…]

– La storia di Sara

(Paragrafi di racconti)

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