Le mani

L’altro giorno pensavo Ma guarda quanto sono diventate brutte le mie mani, non sono più quelle di una volta con lo smalto rosso e le unghie lunghe insomma, sembra che faccia un lavoro duro, di quelli che ti consumano le dita. Invece.
Invece lavo (tanto) stiro (poco) cucino (più di tutto) metto in ordine cose per non inciampare e cerco di stare zitta. Eh ma sai tutti questi figli, no, in realtà quello che più di tutto rovina le mie mani è lo stare zitta. Questo trattenere le parole masticandole tra i fiotti della stanchezza intervallati dalle ore. Mi mordo le dita fino a far uscire il sangue, ed è difficile fermarlo poi, i cerotti si staccano e sotto l’acqua le ferite non si rimarginano mai.
Ci sono dei periodi migliori in cui non mi faccio poi così male, magari le butto dentro un foglio bianco le parole, così le mani soffrono di meno. Altri peggiori in cui il dolore inizia dalle mani e finisce nello stomaco, dove si appallottola tutto quanto.
Tampono con degli adesivi tipo nastro isolante, in modo che la mia bocca si isoli dal contatto con le mani, le cose le ricordo dal tatto e dagli odori, quindi è un allontanarsi, restare in quel vuoto momentaneo, un apparente distacco tra ciò che penso e quello che vorrei dire. Me lo tengo per me. Me lo tengo per me perché le parole hanno un peso, e questo peso quando è fatto di somme è una ferita, due ferite, tanti piccoli tagli fuori e dentro, alcuni si vedono altri no.
Cerco di nasconderle, le mani, quando esco, faccio gesti veloci oppure le tengo chiuse, in tasca, e lo vedo se me le guardano, quando lo fanno sposto l’attenzione.
Forse è un disagio stupido ma, dai, siamo onesti, è la prima cosa che si guarda in una persona. Come fate a dire gli occhi? È un luogo comune che non regge più. Le mani gli guardate ad un uomo, ammettetelo. Perché è con quelle mani che vi toccherebbe e mentre parla o parliamo noi le guardate e ve lo immaginate. Se sono orrende è inutile, quel poveretto non avrà nessuna speranza.
Le mani rappresentano non solo il contatto, le mani ti strappano di dosso il cuore, i brividi buoni e anche quelli cattivi. Ti irrigidiscono ti tormentano ti scaldano ti aiutano o ti distruggono. Sono la parte di noi che più ci rappresenta io penso. Anche nella gestualità si vede la persona che sei, da come le muovi, da come le tieni. E da troppo tempo io le nascondo, le tengo chiuse, le tengo piene, occupate. Le tengo tra la farina e gli impasti, tra le penne e la carta, sui tasti bianchi dove scorrono via insieme, per fortuna l’insegnamento della dattilografia che non esiste più.
Mi guardo le pieghe ora, gli anni si contano anche qui, tra le vene più scure e più sporgenti, gli anelli sbiaditi e le cicatrici vecchie. Non le so creare le cose, non so disegnare, non so cucire, queste mie mani guariranno dalle ferite forse, si vedranno piccoli solchi scuri, oppure strisce chiare per le scottature del forno, ma non sanno creare nulla. Anche questo è un pezzo mancante, un difetto di fabbrica io credo, e allora cerco di imparare, un aereo di carta, un bottone di traverso, un ordine preciso in fila per colore ma non ci riesco. Il mio è un piccolo caos in ordine di tempo, è sempre un l’ho messo qui da qualche parte dove almeno lo ricordo eppure quasi mai lo trovo. Il mio è un andare avanti con la mente perché ad arrampicarmi, le mie mani ferite, non ce la farebbero proprio.

[Paragrafi]

[Appunti del non viaggio]

 

 

Era il dodici luglio

Ogni tanto torno qui, c’è una panchina davanti all’ingresso del cimitero, mi sono seduta adesso, non ho un orologio quindi potrebbe essere passato un minuto, un’ora o due non so dirlo. Tutto si è ingrandito, in trent’anni è raddoppiato. Entrare significherebbe fare lo stesso identico percorso di sempre. Lo stesso scricchiolio, gli stessi sassolini e lo stesso rumore sotto la suola delle scarpe dal fondo di gomma, gli stessi fiori, soltanto i flaconi vuoti hanno cambiato forma, quelli per riempire i vasi, l’ammorbidente e il detersivo hanno aggiornato i formati e devono averlo deciso anche per i colori.
Le impalcature attirano l’attenzione adesso, il silenzio è sempre cantato dalle cicale lì intorno. C’è questa strada che finisce, finiva proprio qui, ora soltanto qualche centinaio di metri più giù ma il senso è lo stesso, qui finiscono le strade, finisce il tempo avuto a disposizione.
Da piccola venivo con mio nonno, con la sua vespa bianca dal parabrezza alto, era un bianco quasi grigio, il parabrezza grigio sul serio, di quelli anni settanta che lasciano il buco per la luce e il telo che copre in caso di pioggia. Ero piccola, stavo sempre sul davanti, in piedi, dietro mi avrebbe persa. Facevamo lo stesso giro, ogni volta. Mi ricordo le fotografie, tutte quelle delle lapidi vicine, vecchissime già allora, in bianco e nero fuori fuoco, immaginavo le loro vite in silenzio.
Mi sono allontanata per parecchi anni. Negli ultimi sono ritornata sempre con il passeggino, probabilmente per avere un peso conosciuto sulle mani da portare. Non ho più fatto lo stesso giro, ci sono parecchie scale, le ruote dei passeggini fanno un altro rumore e affondano, non puoi mantenerti dritto, come i carrelli del supermercato quando hanno una ruota rovinata e non decidi mai tu la traiettoria che prenderà.
Passo fuori, nel secondo ingresso che è lì da vent’anni. I viottoli sono di cemento e i passaggi lisci, senza barriere architettoniche.
Anche lui è qui adesso. Oggi sono ventuno anni. Oggi è il giorno dopo quello in cui.
Guardo le loro due facce sorridenti, anche mia nonna è qui ormai, li hanno messi lontani ma si saranno riuniti, non avrebbero sopportato ancora una distanza. Dico Ciao e me ne vado via veloce, questo posto mi piega il ricordo degli anni, lo spacco di due vite divise ogni volta con lo strappo.
Mi rimetto a camminare verso casa, quella che era mia. Mi affaccio dalla vecchia finestra sul retro, faccio la mia solita foto, torno alle macchinine, i telecomandi e i sassi presi sulla riva. Li divido tutti, i neri dai chiari, li metto nei barattoli di vetro quei pezzi di roccia sgretolata, ché un po’ è il mio mare frastornato, una certezza che conservo in fila in un ripiano nella stanza sotto la montagna; un po’ sono io, in tutti quei tagli, mille forme per adattarsi alla trasparenza, finire scheggiata dalla rottura e mai, mai più tornata intera.
Per un attimo ecco la sera di tutti gli anni prima, sono di nuovo piccola tra quelle lenzuola stirate, mi rimetto sulle cose, sulle mani lasciate aperte e chissà se è stata davvero la tua voce o me la sono soltanto immaginata.
Lo troverai un modo hai detto, lo troverai.
Ma tu continui ad andare via all’improvviso ed io a tenere questa corda tesa piena di nodi. Tutto è fuori posto nella credenza ora, il tuo bicchiere a forma di stivale pieno di gettoni non c’è più.
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[Paragrafi]
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[appunti del non viaggio]
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150 parole

 

 

Disegno case con finestre a quadri sul vetro che s’appanna, ripenso a noi. Abbiamo fatto l’amore sotto casa tua, mentre le auto andavano, tornavano, le strisce di luce a rigarci la pelle poi i soliti discorsi, sai mi vedo con altre non vorrei ci rimanessi male, però la vita è così, niente sarà più come avrebbe dovuto essere;
Adesso torno al tavolo dove ho lasciato l’impasto della crostata a riposare; tra le mani lo misuro, il forno è acceso. Continuo ogni giorno a fare le cose inutili di sempre che vuoi che ti dica, accendo la radio e poi una sigaretta, L’acqua ha smesso di fare rumore, guardo fuori c’è la tua auto qui. Non può essere mi dico, apro la porta e ci guardiamo come due lupi dello stesso branco, non parli, ti abbraccio. Ti dico che non posso, devo restare. E la crostata continua a bruciare nel forno.
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[Paragrafi]

Buone Feste ❤

 

Il Natale rappresenta sempre un po’ la conclusione di un anno passato, tutto l’accaduto, i propositi e i progetti per quello dopo.

Non si cambia mai davvero, si torna, si va o si resta. Ci si adatta, forse si diventa più cinici, più ottimisti, più bugiardi, chissà se il guarire porta tutti con sé oppure lascia inevitabilmente indietro qualcuno…

Non si diventa più buoni, non si diventa cattivi. Ognuno è. E resterà così,  basta piacersi o accettarsi.

Più che augurarvi serenità,  che io vedo come una destinazione, vi auguro un percorso che sia scoperta, meraviglia e allegria, che possiate viverlo soprattutto con chi sceglierete,  per mano, per proseguire nella stessa direzione – perché la condivisione è la cosa più bella.

 

In attesa di cose più interessanti e pubblicazioni future, vi lascio un racconto, per chi vorrà leggerlo, scaricabile dal link in pdf.

Buona feste❤

 

 

FUORI DAL PALCO DOC racconto breve

 

 

 

I colori dell’assenza – Racconto inedito

secondo volume di n vite

 

I COLORI DELL’ASSENZA

RACCONTO INEDITO INSERITO NELLA RACCOLTA

 

{n+1}VITE Raccolta di Racconti AA.VV.

 

 

Ventuno autori, ventuno storie, ventuno vite.
Ventuno, non a caso.
Ventuno è una scelta.
Ventuno grammi dicono sia il peso dell’anima
ed è lei che troverete in queste nostre pagine
che raccontano una storia, la tua.

COD.  ISBN 978-88-99750-03-9

Di seguito il link del sito per acquistarlo:

{n+1}Vite